Basta leggere le dichiarazioni del Governatore della Banca centrale inglese per percepire il senso di smarrimento che sta vivendo la scena politica britannica all’alba di una Brexit annunciata ma che nell’ultimo discorso del Premier Teresa May si preannuncia più drammatica del previsto.
D’altronde la sterlina inglese già aveva suonato il campanello d’allarme con avvisaglie che si sono concretizzate nella notte tra il 15 e il 16 gennaio con un movimento del cross GBP/USD contro dollaro Usa da 1,22 sotto la barriera di 1,20 che ha penalizzato le azioni e a tutto vantaggio dell’oro.
Nell’ammettere che l’incertezza ha bloccato gli investimenti, che in molti settori sono già decisamente diminuiti, Carney prende le distanze da un bilancio complessivo che l’incognita Brexit ha reso pesante come un fardello e dove vendite al dettaglio e disoccupazione di prossima pubblicazione potranno chiarire meglio la tendenza sui macro.
Sicuramente la divisa della Regina Elisabetta ha spazio per correggere ulteriormente.
Il piano della May è semplice quanto oneroso: chiedere l’applicazione dell’art.50 del Trattato comunitario prima di marzo e uscire dall’UE e quindi dalle regole comuni anche in seno al WTO entro la fine del 2019.
Quindi fare accordi bilaterali con i Paesi UE gestendo lo spinoso problema del “passporting” sui contratti per i prodotti finanziari garantendo lo stato di fatto e quindi senza un isolamento delle istituzioni finanziarie britanniche e una fuga di quelle occidentali verso le accoglienti capitali europee.
Dal Guardian al Sunday si rincorrono le presunte indiscrezioni ma tutti convergono sull’idea che il Premier inglese voglia riguadagnare il controllo dei confini e affidarsi ad accordi di libero commercio (FTA) fuori dall’UE, attivando misure di difesa della competitività che però non fanno i conti con la gestione di un periodo di transizione vincolato da patti e accordi siglati in precedenza.
La May cerca così di prendere le distanze e giocare in difesa sulla scellerata e mal impostata politica sui migranti della quale finalmente si stanno tracciando una base di regole comuni che tengano conto dei numeri e dei flussi a venire, attesi in crescita, con un certo ritardo nel coordinamento dei Paesi e con eccezioni come l’Ungheria che rifiuta qualsiasi assoggettamento ai dettami di Bruxelles.
Ma fare i conti di questo divorzio è arduo come in tutti quelli non consensuali. L’attesa è per lunghe negoziazioni e stuoli di avvocati pronti a darsi battaglia sul prezzo di una separazione storica, ormai inevitabile.
Sembra una commedia di Shakespeare, una rivisitazione della Tempesta forse, ma più sicuramente una vicenda che passa per le mani e le competenze di un negoziatore d’eccezione come Barnier che potrebbe essere tentato di fare un accordo per non perdere il legame con la City per timore di ripercussioni sulla stabilità finanziaria delle istituzioni europee se si scatenasse una guerra per il “passporting”.
Se l’economia reggerà alla Tempesta con un’inflazione in crescita vedremo prossimamente rialzi dei tassi ma è la leva dei consumi che farà la differenza, cosa non da poco dato un diffuso senso di apprensione che si aggira nel Regno Unito, soprattutto per quel settore terziario trainante che dovrà fare i conti con i giochi politici della Brexit.