In campagna elettorale aveva promesso che avrebbe messo mano al NAFTA (l’accordo di libero commercio tra Messico, Canada e USA) e completato la costruzione di un muro a spese dei messicani. Poi, però, Trump ha messo in atto una tattica diversiva molto più efficace: ha messo mano a Twitter e minacciato dazi all’import dal Messico. La mossa si è rivelata molto utile, come dimostrato dalle decisioni annunciate da Ford, Toyota e Fiat.
In effetti modificare un accordo internazionale è impresa ardua e politicamente impervia per i risvolti diplomatici e commerciali che sarebbero anche a svantaggio degli USA, dunque molto meglio agire unilateralmente, con una minacciosa “moral suasion” che può valere più di mille atti definitivi!
A nulla sono valsi i toni diplomatici dell’incontro di fine agosto di Trump con il presidente messicano Nieto; come risultato il peso messicano ha perso nell’ultimo anno circa il 17%, prevalentemente negli ultimi sei mesi, senza contare il -4% nei primi 10 giorni dell’anno, toccando nuovi minimi nonostante la Banca Centrale messicana abbia speso 2 miliardi di dollari Usa nella sola prima settimana di gennaio per difendere la divisa, pari all’1.2% delle riserve valutarie.
Le attese sulle mosse per il prossimo incontro della Banca Centrale sono di un rialzo dei tassi per il 9 febbraio ma se la pressione sul peso dovesse continuare non si può escludere un intervento straordinario.
Come se non bastasse la questione commerciale, c’è un’altra preoccupazione all’orizzonte legata alla questione migranti e alle rimesse dagli Usa che rappresentano per il Messico un’entrata importante, superiore anche ai flussi di investimento dall’estero, di un’economia che negli ultimi anni è stata trainata dalla ripresa dei consumi interni ma che, a causa di questi recenti eventi, vede la previsione del PiI 2017 ridursi all’1,6% mentre sino a un mese fa era atteso al 2,5%, con il rischio di un ulteriore revisione al ribasso.
Lo spettro delle difficoltà che stanno attanagliando la Turchia e impedendo alla Banca Centrale di frenare il deprezzamento della divisa e la fuga di capitali, non può che spingere i messicani verso una politica monetaria decisa e senza titubanze, forti di un quadro politico solido e decisamente più favorevole ai mercati di quello turco. Ma certamente le case di rating non fanno sconti e sono pronte a muoversi sullo sfondo di outlook negativi già presenti per tutte e tre le agenzie.
Certo, per chi si fosse sintonizzato prontamente sulla lunghezza d’onda di Trump, un arbitraggio short su Peso Messicano e Long sul rublo russo avrebbe portato a casa il 20% in 40 giorni: un affare di questi tempi, ma chiaramente realizzabile solo da investitori avvezzi a una gestione dinamica sulle valute, con rischi elevati e da non sottovalutare.
Indubbiamente, tra le divise più in difficoltà troviamo il peso messicano e il dollaro canadese, due scommesse perse per un NAFTA alla deriva. Le politiche di Trump mirano a un protezionismo marcato e quindi a favorire un rientro dei capitali delle corporates negli Usa e a ridurre gli effetti di politiche di delocalizzazione favorite dalla globalizzazione, che vive un momento di difficile ripensamento in un dibattito globale, scatenatosi proprio all’indomani della vittoria del magnate americano.